mercoledì 5 agosto 2015

LUIGI DONI - FILIPPO DOBRILLA
LA MEMORIA DELLE FORME
ANDREA MELLO - NICOLA NUTI









L’incontro di Fiesole con le sculture di Filippo Dobrilla e le pitture di Luigi Doni non è stato
fortuito, ma fortemente voluto. Da anni inseguivamo, infatti, i giganti di marmo di Dobrilla e
le magnifiche tele di Doni, poi l’occasione. E la scelta successiva è stata quella di legare la mostra
con l’“Estate Fiesolana” e, quindi, con la Basilica di Sant’Alessandro, ovvero con il luogo che da
sempre ha ispirato i grandi artisti e che ha aperto le sue porte anche al “contemporaneo” con la
grande mostra sui i Della Robbia nel 1998. Un luogo mistico e imponente che fa da cornice in
maniera esemplare al messaggio artistico dei due artisti. Un luogo che ben accompagna il visitatore
alla loro scoperta.
Paolo Becattini
Assessore alla Cultura del Comune Fiesole
Dobrilla e Doni due artisti in una Basilica






Subiaco 2007, cm 148x200,5







La Memoria delle Forme

C’è un assordante silenzio prima di ogni azione creativa: le immagini della mente restano
sospese, confuse insieme a una miriade di segni e frammenti di visioni. C’è lo stesso caos nella
memoria visiva, quando un elemento viene scalzato dalla sua collocazione nel quotidiano. Ma alla
fine, nel momento in cui memoria e atto creativo si incontrano, l’opera che ne scaturisce acquista
il suo spessore, stratificazione su stratificazione. Questo è il genere di lettura che richiedono i
lavori di Filippo Dobrilla e di Luigi Doni, qui raccolti in un serrato dialogo plastico: testimonianze
di un’epoca remota eppure contemporanea, fra celebrazione e smarrimento; tormentati paesaggi
dell’anima, non luoghi dell’inquieto vivere. Il percorso è duplice: la materia creativa è posta a
riscontro con la realtà, ma anche con la memoria e la storia.
La Toscana è territorio di inattese e specifiche compensazioni, dove ogni itinerario d’arte subisce
mutazioni a seconda della complessa morfologia culturale del luogo, per la sua proiezione esistenziale che è fondamentalmente basata sul senso della misura, sulle proporzioni legate alla terra. Le opere dei due artisti assumono perciò l’aspetto di ricognizione sui motivi interiori che legano l’esistenza dell’uomo a un certo spazio e un certo tempo. L’orizzonte di Dobrilla è quello delle forme familiari, le linee del proprio corpo, proiettate sullo scenario di una iconografia personale. Le enormi figure in marmo bianco delle Apuane, i calchi, gli altorilievi, (e le sottolineature “anacronistiche” che
scaturiscono dall’inserimento di particolari distintivi del nostro tempo), possono essere percepiti
come una sorta di astrazione, tessere di un mosaico mai compiuto, reperti di un passato ancora di
là da venire. Dobrilla potrebbe essere definito “postmoderno”, se volessimo adattarci a etichette di
comodo, ma il fatto stesso che lo scultore resti ancorato a un “fare” tradizionale, da antica bottega,
e che non ami teorizzare sul proprio lavoro, allontana ogni pretesa di classificazione. La sua ricerca è
appartata, rifugge la trovata a effetto e si concentra principalmente sui valori pertinenti alla natura
dei materiali, una sorta di Einfhülung, come la definiva Worringer, cioè adesione al significato
intimo della forma. In questo senso, le dimensioni, il peso fisico delle sue sculture, stabiliscono
un’appartenenza alla terra, una dignità di persistenza nel mondo che conferisce alle opere il ruolo
di asse fra immanenza e trascendenza, umanità e divinità.

È importante focalizzare la sintonia dei due artisti, Dobrilla e Doni, con le cose di natura: entrambi
alle prese con il carattere metamorfico della terra, l’uno utilizzando la luce imprigionata dalla roccia
calcarea (il nome “marmo” deriva da una parola del greco antico che significa “pietra splendente”)
per inventare o reinventare il mito contemporaneo, l’altro portando lo sguardo sulla materia che è
anche forma, scavando e impastando terra e colore finché non ha dato vita all’incubo, ovvero alle
forme in incubazione, nucleo di memoria e ancestralità come cantava la poesia orfica.
Quella di Luigi Doni è pittura di meditazione, in cui ogni segno è ricavo di un’osservazione senza
giudizio, come se l’artista avesse imparato, nel tempo, a “naufragare” nel suo personale “infinito”.
C’è sempre stato, nell’opera di Doni, il senso di sospensione, di attesa, che definiva la scena dipinta
nei termini di una storia senza inizio e senza fine, ma, mentre negli anni passati gli oggetti e i paesaggi parevano monumenti all’immobilità, adesso la pagina appare fragorosa, e ti sembra di udire i fruscii, gli schianti dei rami mentre lo sguardo si fa strada, a fatica, verso il cuore dell’immagine. Le grandi tele sono una specie di scenografia della solitudine: la luce resta intrappolata fra i grumi di materia e le forme si stagliano con volumi incerti. Quanto basta perché l’apparenza, adagiata come in una illusione, si stacchi da una qualificazione purchessia e liberi l’animo dalla soggezione del reale. Una pittura che non si concede a smanie di verosimiglianza, né ad alcuna forma di decoro, ma che ci
invita a un viaggio verso il noto, ossia la fine e l’inizio di tutte le cose. Nei quadri di Doni vi è spesso



Laura, 2005, cm 200x91,5.

una figura in ingresso, come sul punto di varcare una soglia. Ora è il pittore stesso ad aver varcato l’accesso al suo nuovo mondo: si tratta solo di trovare il (montaliano) varco. Partecipiamo uno
stralcio di esistenza che nelle risorse del pensiero e della poesia contiene la sua bellezza, la sua armonia. Le parole che salgono sono semplici, forse un poco ruvide, ma quanto alto e profondo è
il senso della vita che all’arte chiede sopra tutto una verifica, una nozione di autenticità.
Dunque, il paesaggio, qui, non è posseduto o ammirato, e neppure descritto, è dipinto, come trasferito nella sua essenza direttamente sulla tela, materia su materia, colore su colore, nel rispetto del carattere metamorfico del territorio e di una memoria che non ricorda nulla ma restituisce tutto: ecco la religiosità di Doni, questo contemplare senza possedere, rappresentare senza raffigurare. Doni riesce a controllare le emozioni, a dare ricchezza di materia a una partitura dai toni contenuti. Anche per tale conformazione, aver suscitato rialzi di significato in un panorama di natura che alla lunga spingerebbe al tedio e all’informe, la sua opera mantiene quel senso compatto di poetica, quella stabilità di valori ben individuati nel tempo.
Dal percorso incrociato di due visioni d’artista memori di forme interiorizzate, nasce questa mostra, l’idea di un inestinguibile rapporto che è interferenza, confronto, varietà di accenti, fra uomo e realtà, misura dell’esistenza e dismisura del tempo che così risulta infinito, certo sciolto da ogni orpello virtuosistico, da qualsivoglia devianza di moda.


una figura in ingresso, come sul punto di varcare una soglia. Ora è il pittore stesso ad aver varcato l’accesso al suo nuovo mondo: si tratta solo di trovare il (montaliano) varco. Partecipiamo uno
stralcio di esistenza che nelle risorse del pensiero e della poesia contiene la sua bellezza, la sua armonia. Le parole che salgono sono semplici, forse un poco ruvide, ma quanto alto e profondo è
il senso della vita che all’arte chiede sopra tutto una verifica, una nozione di autenticità.
Dunque, il paesaggio, qui, non è posseduto o ammirato, e neppure descritto, è dipinto, come trasferito nella sua essenza direttamente sulla tela, materia su materia, colore su colore, nel rispetto del carattere metamorfico del territorio e di una memoria che non ricorda nulla ma restituisce tutto: ecco la religiosità di Doni, questo contemplare senza possedere, rappresentare senza raffigurare. Doni riesce a controllare le emozioni, a dare ricchezza di materia a una partitura dai toni contenuti. Anche per tale conformazione, aver suscitato rialzi di significato in un panorama di natura che alla lunga spingerebbe al tedio e all’informe, la sua opera mantiene quel senso compatto di poetica, quella stabilità di valori ben individuati nel tempo.
Dal percorso incrociato di due visioni d’artista memori di forme interiorizzate, nasce questa mostra, l’idea di un inestinguibile rapporto che è interferenza, confronto, varietà di accenti, fra uomo e realtà, misura dell’esistenza e dismisura del tempo che così risulta infinito, certo sciolto da ogni orpello virtuosistico, da qualsivoglia devianza di moda.


  Nicola Nuti



Cipresso, 2011, cm 302x106
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       


























































Dietro quest'infinito: la nuova  stagione di Luigi Doni


Ritrovare un amico dopo dieci anni è stato anche ritrovare la sua pittura, lietamente trasformata,
eppure fedele a se stessa, proprio come lui. Queste nuove tele, tanto sorprendentemente dissimili
da quelle che ricordavo, per averle viste negli ampi spazi dell’appartamento di Santo Spirito, marcano
la trasformazione avvenuta in questo lasso temporale. Segnano una distanza che lo separava da
se stesso. Ammesso che un artista riesca mai a raggiungersi, a divenire pienamente quello che è; o a
ricongiungersi al proprio inizio.
Non riesco a parlare della sua nuova pittura senza procedere, almeno inizialmente, per antitesi. Forse
perché è delle nostre facoltà concettuali, conoscere sempre sullo sfondo di un qualche contrario, di un
qualche principio antitetico.
La pittura di Doni è un linguaggio, per questo le parole di cui la scrittura non può fare a meno, rischiano di scivolarvi sopra, senza scalfirla, senza nulla dire della sua essenza mutevole e Una. I quadri che conoscevo erano interni, nitidi eppure enigmatici, soffusi di un raggelato silenzio. Erano immagini che volevano diventare visione, ma che non potevano esimersi dal dato figurativo. Erano immagini chiuse e ripiegate in se stesse, che facevano indovinare un qualcosa di inespresso, enigmi sporti su un baratro.
Ma era quel baratro, che all’artista davvero premeva. Per questo, quei bei quadri, perfetti nella tecnica, nitidamente composti entro una misura inappuntabile, si prestavano ancora a un equivoco estetizzante.
Stavano bene entro le loro cornici neoclassiche, mentre sembravano rinviare a un décor d’altri tempi.
Ora la cornice si è rotta. il quadro non vuol più, né può, essere contenuto. Luigi ha spezzato il limite
dell’apparenza sensibile, si sta spingendo oltre. Questa pittura, pur essendo forma, aspira a ricongiungersi al nucleo pulsante e magmatico della materia. Si può dire che questa pittura irrompe come la lava di un vulcano attivo. Come la lava, anche queste figure-non figure rotolano oltre il quadro, l’immagine non è più tale, ma è visione che vuol essere riconosciuta come vera. Come l’unica realtà possibile al di là del mondo che appare.
Ho cercato in questi mesi di frequentazione assidua, di comprendere il senso di quanto mi diceva, circa la necessità di dimenticare la tecnica. Non credo che questa pittura faccia a meno della tecnica, al contrario, essa ha colmato il baratro che in ogni espressione dilettantistica separa la forma dal contenuto. E’ tecnica nel senso più alto, perché compiutamente rifusa in individuale esperienza del Mondo.
Non più immagine, ma compiuta visionarietà, che della realtà esperita coglie l’essenza materica, ma
che della Materia fa la meta ultima della propria ricerca, perché nella matericità caotica e debordante,
plasmante e distruttiva, vuole scoprire il segreto ambiguo.
Luigi vuole annullare la coscienza, spingerla fuori dal cerchio della sua attività, come elemento di disturbo, come intralcio alla sua cieca furia discopritrice e ri-velatrice. Se può esistere una verità, anch’essa, come per i greci, non può che risiedere nella negazione, nella alétheia: il non velato. C’è qualcosa di infantile e di ludico nel senso più alto, nella gioia con cui si abbandona alle leggi imposte dalla materia stessa, nell’ansia di sperimentare nuove tecniche, nuove resine che, simili a carta moschicida, devono intrappolare sulla tela il sottobosco, con tutta l’eterogeneità di corpuscoli e di disfacimento che lo compongono. Ma questa è una pittura giocata non più sull’orlo estremo del caos, dell’Aperto, ma dentro quel caos medesimo. E da questo caos l’artista non aspira a riportare in superficie, cosmicamente ordinato, alcunché, almeno nessuna bella forma.
Piuttosto nel caos sembra immergere con piacere incontenibile tutte le forme, ve le bagna, come in un
elisir magico, capace di infondere movimento.
La velocità è un’altra delle parole che ricorrono più spesso nei suoi discorsi. La necessità di essere rapidi, di condurre il pennello finché il colore è ancora bagnato, per creare l’impressione di sagome al di sotto dell’acqua. L’acqua è un altro degli elementi fondamentali di questa nuova stagione pittorica. Mi dicono che essa sia iniziata da un paio di anni. In realtà doveva recarla in sé fin dall’inizio del suo percorso umano, perché questa pittura non la si improvvisa. E’ la pittura di una vita, della sua vita.
Ciascuna delle tele di questa nuova stagione è, si può dire, monocromatica. Vi sono anche delle eccezioni, che vedremo in seguito. Dominano gli azzurri, i colori freddi e, ultimamente, i colori autunnali. E autunnale, ma non crepuscolare, è questa pittura che si fa, compiutamente, poiesis. Autunnale nel senso di sospensione, di sincope temporale e interlocutoria, che essa rappresenta. La prevalenza della matericità potrebbe richiamare alla mente un’idea di vitalismo, di energia. L’idea dell’anello degli anelli dell’eterno ritorno. Ora è come se essa si collocasse sul punto di svolta tra un ciclo e il successivo avvitarsi del tempo su se stesso. Pausa indefinitamente protratta, in attesa che sopravvenga una nuova scoperta, o una catastrofe. Nella stagione precedente, quella di dieci anni fa che io ricordavo, il segreto avanzava teatralmente in primo piano. Di solito raggrumandosi in figure femminili malinconiche come manichini abbandonati, oppure estatiche e trasognate. Ora il pittore nasconde le figure come criptogrammi, tracciate tono su tono, dissimulate tra le macchie di colore apparentemente caotico e dissolto.
Si tratta di nudi, maschili e femminili, che sembrano provenire da una mitologia personale o da un Eden sepolto nella memoria. E’ il processo della rammemorazione attiva, della memoria volontaria/involontaria che qui viene messo in scena. Un rimescolarsi dei contenuti cerebrali, che però ricaccia sempre il vissuto traumatico sullo sfondo, lo fa apparire, ma solo, direi, in maniera iniziatica. In questo senso è una pittura esoterica. “Non vedi?”, mi chiedeva lui stesso collocandomi nella giusta prospettiva, alla giusta distanza, e poi tracciando ampi cerchi immaginari dinanzi alla tela, in particolari zone che lui soltanto sapeva. Se non lo si sa prima, non ci si può accorgere della presenza di quelle figure sotto, o dietro il velo del colore, di quelle chiazze più dense che si raggrumano al di sotto di dissolvenze e chiaroscuri.
Se non si dimentica non si può ricordare. Queste tele mettono in scena la mappa cerebrale di
processi mnestici, tracciano il cammino di una ricerca all’interno di sé, ma anche di un’ansia di Nonconoscenza, di ottenebramento e di naufragio dell’Io.
Baudelaire diceva che l’arte è l’infanzia disseppellita. Una di queste tele, eccezionalmente non monocromatica, ma giocata sul netto contrasto dei colori, mi ha riportato alla magia di un’esperienza infantile.
Si tratta di una composizione semplicissima, che trae spunto dall’osservazione della natura. Un
albero di pomi che protende i suoi rami spogli sullo sfondo di un cielo cupo, eppure luminoso. Contro
questo sfondo si staglia la miracolosa sfericità dei pomi, che però non sono più pomi, ma mele d’oro.
Sono i pomi del giardino delle Esperidi, frutti meravigliosi che promettono una felicità sconfinata.

                                                                                                                                                           



Funivia, 2007, cm 150x202.


In questo quadro semplicissimo Luigi ha trasfuso tutto l’incantesimo dell’infanzia.
La nuova essenzialità del linguaggio pittorico di Doni spinge all’estremo la sintesi, l’unità d’ispirazione, la coincisione. Quest’essenzialità è sottesa alla natura stessa dello sguardo che l’artista posa sulla realtà.
Alla sua capacità di ricondurre il molteplice all’Uno, di vedere, dietro alle divaganti e svianti forme
dell’apparenza, il ripresentarsi di un’unica domanda. Vita e morte si controbilanciano come la durezza della materia inorganica, il minerale, la roccia, e la cedevolezza trasparente dell’elemento acqueo. In quest’elemento l’artista aspira a rientrare, come in un ventre materno/maligno, che da un momento all’altro potrebbe risospingerlo verso l’ancipite vitalità della morte, di cui tutti siamo partecipi.

Barbara Di Noi








Festa del venerdì piovoso, 2007-08, cm 200x250.





Particolare
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     


La superficie profonda

Si va incontro ad una lontananza per sterrati boschivi, mentre attorno la natura avvolge, lasciandoci
addosso le sue tracce di selvatico. Strade impervie portano alla casa di Filippo Dobrilla, scultore
che scelse quindici anni fa circa di costruire la propria dimora sul Monte Giovi, sopra Pontassieve.
Fu proprio Luigi Doni suo caro amico ed ammiratore del lavoro scultoreo a farmi conoscere Filippo,
traversando la notte, salendo fino alla sua abitazione. Voglia per la particolare situazione temporale,
voglia per le voci di questo scultore che mi erano giunte (ad esempio da parte di Anna Maria Amonaci che si accorse per prima della qualità del suo lavoro), fatto è che il mio sguardo fu di assoluta meraviglia di fronte alla prima opera che vidi a ridosso della casa di Filippo: sotto la luna, abbracciati, due enormi corpi, di tre metri e mezzo circa, il corpo Gionata rivolto verso quello di Davide. Il viso del primo, le sue braccia rivolte a toccare delicatamente la presenza di Davide. L’antefatto di quel momento scolpito è narrato nella Bibbia. Due corpi, due vite che, incontratesi, svelano il sentimento verso l’altro. I due fanciulli, “baciandosi l’un l’altro piansero insieme”. “Gionata, figlio di Saul, si sentì legato a Davide da una grande amicizia, lo amò più di un fratello”. Dobrilla si ispira per rappresentare quel sensuale pathos alle figure che si stagliano sullo sfondo nel Tondo Doni di Michelangelo. I giganti (ancora non del tutto scolpita l’opera), sono colti in una posa morbida e intima: le dita dei piedi che si sfiorano mentre i corpi si avvicinano con le gambe e le spalle. Quindi, ancora nella produzione del Dobrilla, anche altri due personaggi, altre passioni: Encolpio e Gitone, uno seduto per terra, poggiato Statua in grotta alle gambe sicure dell’altro. La storia: i due sono amanti incalzati, come narra Petronio nel Satyricon, da una divinità fallica, Priapo, il quale, dopo aver subito un oltraggio da Encolpio, lo perseguita provocandogli insuccessi erotici.










Dopo la festa del venerdì piovoso, 2006-7 cm 200x250







Ancora Davide e Gionata: ma da un’altra prospettiva per parlare dell’arte di Filippo, ovvero il loro essere giganti rispetto agli occhi di chi guarda. L’altezza del Monte Giovi, mentre il vuoto sottostante della vallata accoglie la loro forza, sembra li faccia ergere ancora di più. La forma scolpita, sia per la sua posizione nel territorio, sul monte, sia perché oltrepassa le normali misure umane, ne rafforza la presenza oggettiva in un continuo divenire e crescere a maggior grandezza. L’altezza, il primo personale incontro; poi, Filippo parla e racconta di un’altra dimensione - opposta - che appartiene alla sua vita. Si scende nella profondità della roccia. Fin da giovane Filippo si avventura dentro grotte, sondando, con la sua passione per la speleologia, “abissi” sottostanti la crosta terrestre, aprendo sentieri non ancora solcati. In uno di questi scolpisce una figura, il cui destino sarà di rimanere distesa nella stessa posizione perché impossibile portarla alla luce esterna. Nata dalla pietra, dentro la terra cava di una grotta, pare essere la divinità protettiva di quel tempio naturale. La vertigine degli abissi. La pietra scolpita all’interno di una pietra percorsa. L’ulteriore profondità che assieme a quella dei giganti, tesa verso l’alto, ha in comune, oltre alla pesantezza della materia da cui nasce, un’estrema verticalizzazione. Il dentro degli abissi, l’altezza dei monti. Si potrebbe osare in questi percorsi a due dimensioni, una doppia lettura della creazione – in sé - e dell’opera – in particolare - del Dobrilla: la discesa all’interno della pietra e la fuoriuscita dell’idea in nuce; dallo stato d’idea pura, che si materializza demiurgicamente nella forma reale. Lo scolpire, lo scavare, scendere nelle profondità ha una tonalità esistenziale, artistica.





Pineta (Pratoranieri), 2007 cm 143x303








Conoscere o scoprire i percorsi che fanno scendere all’interno delle grotte, arrivare in antri
sconosciuti, è conoscere l’interiore della natura. Scolpire è conoscenza della forza del materiale, della
rigidità interna, è il riempimento celato agli occhi di una forma esteriore. Il dentro, quello che non si
vedrà mai, fa sì che l’opera si mostri nella sua pelle.
La passione per la speleologia di Dobrilla va di pari passo con la crescita artistica. Filippo frequenta
poche scuole d’arte, ma molto importanti che gli danno la competenza e la capacità nella tecnica scultorea: una di restauro su legno, quindi gli insegnamenti dell’ultimo capomastro dell’Opera del Duomo di Firenze, durante un corso di arte lapideia. Sempre molto attento non solo alla parte teorica che apprendeva ma educato anche dalla lettura delle biografie dei maestri, Filippo conosce a memoria intere frasi riguardo le tecniche artistiche e gli episodi di vita del passato degli scultori. Inizia a lavorare scolpendo, cercando un’ulteriore dimensione ai dipinti del Cinquecento toscano. Reinventa figure storiche di santi o cavalieri, investendoli di particolari che appartengono alla moderna temporalità: ad esempio, San Giorgio, in pietra arenaria, si mostra valoroso e battagliero nel momento in cui sta per conficcare la spada nel drago, sostenuto da una Fiat Cinquecento e indossando un paio di sandali Birkenstock. L’Ada18m o in bronzo nella sua nudità, nel suo passo deciso, ha una capigliatura rasta: il primo uomo, somigliante al suo autore-“creatore”, sceglie di essere lo stesso primo uomo ma in maniera attuale.
All’Adamo, come ai giganti, si gira attorno, se ne può toccare la presenza. La materialità che fugge nel suo essere scolpita al movimento, trattiene in sé, invero, l’idea stessa dell’evento immobile. In altri casi, si ferma, di quell’idea magari un particolare o un ritaglio di sguardo.




Girandola, 2006, cm 143x141.



Nel Torso in jeans, Dobrilla,  scolpisce il busto di una figura con la mano che entra maliziosamente nei pantaloni. Fa parte della perfezione e dello stile dello scultore, la porzione scelta della figura e anche il mantenere certi spazi nella materia attorno alla soggetto principe, alla maniera dei Prigioni di Michelangelo: vi è, tra le braccia e i fianchi del Torso come una profondità anteriore. Il San Giorgio è immerso nella pietra arenaria da cui nasce: l’incompiuto nella sua indefinitezza si fa perfezione di una forma all’interno di un paesaggio più o meno definito. L’Angelo - altra opera - con la sua espressione di curiosità sembra spuntare dal marmo stesso che pare proteggerlo. La forma dell’idea, la sua messa in opera nasce nella forma naturale della materia: è una madre che partecipa e si lega intimamente alla natura del figlio.
Per un evento non deciso anche la scultura esposta alla Biennale del 2011, il Virgultum Iuvene, ha una crepa nella parte superiore del monumento scavato nel marmo che per altro, partecipa nella sua casualità, alla raffinatezza del risultato dell’opera. Un legame forte con la natura quindi da parte dello scultore, incline più al rispetto che ad un’estetica forzatamente perfetta.
Molto spesso le figure maschili di Dobrilla nascono nude. L’uomo a differenza dell’animale, come scrive Derrida, percepisce la propria nudità e tende a vergognarsene, in quanto soggetto calato nel tempo; la nudità che si trova nelle sculture del nostro è invece più simile a quella animalesca, forte, atletica, una nudità divina quasi, mostrata in tutta l’estrema bellezza. La scelta di Dobrilla di far assumere alle sculture le proprie sembianze, non vuole essere un autoritrarsi, bensì un entrare dello stesso in maniera pura, su un piano narrativo reale o fittizio della Storia. Per quel che riguarda le figure di donne, le Madonne che vengono riprese dalla tradizione pittorica e scultorea fiorentina, sono gradevolmente abbracciate a piccoli santi o legate alla Natura come la Madonna con l’uva o la Madonna con cereali. La maternità, il gesto dell’abbraccio con piccoli santi o il piccolo Gesù è la rappresentazione della natura femminile più completa, rilassata, amabile. L’uomo ha qualcosa di più forte, nella fisicità ovviamente, ma anche nei gesti: vi è come uno slancio nelle gambe, nelle mani, le dita tese e il busto forte che si erge nell’aria.
Scriveva John Berger: “la bellezza è la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quel che state
guardando, e di esservi inclusi”. Accedere non solo con lo sguardo a quel movimento che nasce nella
posa è il tentativo di esistenza della scultura. Il sentire che le forme racchiudono, che esprimono la
forza del bello, è riconoscere la semplicità dello sguardo primigenio dello scultore. La nudità delle statue, dei sentimenti scolpiti nelle opere di Dobrilla, è un continuo avvicinamento alla profondità della superficie, a quell’idea che nasce ogni momento e di cui, con grande dedizione Filippo, riporta leggendone con la sua moderna impronta scultorea, i segreti dell’esistenza allo specchio della Natura.
Andrea Mello


LA MEMORIA DELLE FORME
LUIGI DONI




Luna, 2006, cm 145x187.









Inceneritore, 2005, cm 112x140,5.











Ghiacciaio (omaggio a Longoni), 2006, cm 140x240.











Ponte all'Indiano 2005, cm 110x220












Technics, 2006, cm 200x150












 La morte e la fanciulla (Simon Rattle) cm 220x130





Particolare















L’ora blù, 2005, cm 140x240.










Ojizo a Shikoku, 2011, cm 179x170.









La strada, 2010, cm 147,5x142.










La coppia, 2010, cm 140x101.









Nel bosco, 2010, cm 140x182.










Il Muro bianco, 2009  cm 130x85










Figura nel bosco, 2009 cm 130x85










Vigna, 2011, cm 140x144.











La terra verde, 2011, cm 98,5x144.












Tornando a casa, 2009, cm 140x171.












   Volpe










Gargouille, part., 2007, cm 148x200,5.







Orchestra,   2006   cm 145x300